L’ipotermia neonatale è una terapia il cui scopo è limitare i danni cerebrali nei bimbi che nascono con una carenza di ossigeno o di afflusso di sangue nel cervello. Problematiche che possono verificarsi in caso di parti difficili, dovuti per esempio a distacchi di placenta o all’attorcigliamento del cordone ombelicale intorno al collo del piccolo. Questo tipo di terapia rappresenta l’unico trattamento efficace in caso di danni cerebrali nei neonati che rischiano la cosiddetta encefalopatia ipossico ischemica. Scopriamo cos’è nello specifico, quali le conseguenze, come funziona e quando viene utilizzata.
Come premesso, l’ipotermia terapeutica, o baby cooling, è una tecnica di rianimazione che viene impiegata per prevenire danni cerebrali nel neonato. Il bambino, dopo essere stato sedato per evitargli sofferenza e disagi vari, viene posizionato su un materassino refrigerante che, collegato a un macchinario, mantiene la sua temperatura intorno ai 33,5 gradi. In questo modo il metabolismo cerebrale viene ridotto come la produzione di radicali liberi: ciò significa che la morte neuronale, e perciò anche il danno cerebrale, vengono bloccati. Il neonato rimane in terapia per circa 72 ore e la sua attività cerebrale è continuamente monitorata.
I bambini sottoposti a ipotermia neonatale sono quelli che, a causa di un parto difficoltoso, presentano problemi di asfissia neonatale, la cui frequenza si aggira intorno ai 3-4 bambini ogni mille nati. La terapia è però efficace solo se avviata entro 6 ore dalla nascita, un tempo ridotto visto che non viene eseguita in ospedale, ma è necessario raggiungere il centro di terapia intensiva neonatale più vicino. L’efficacia, secondo le stime, è abbastanza buona: la percentuale di neonati che sopravvivono senza danni cerebrali si aggira fra il 18 e il 44 %. Se nei paesi europei è ormai una pratica diffusa, in Italia sta prendendo sempre più piede visti i promettenti risultati terapeutici.